di Andrea Spinosa (Responsabile tecnico di Cityrailways)

L’approccio verdista con il quale molti amministratori presentano la riconversione di ferrovie secondarie in itinerari ciclopedonali nasconde una delle più grandi debolezze del nostro Paese. Fermo restando che ogni linea secondaria e ogni tratta di ciascuna linea ha una storia a sé e non sempre le ragioni che hanno portato alla loro realizzazione più di un secolo abbiano ragione di essere ancora oggi c’è un aspetto che si ripete ad ogni festosa inaugurazione.
Quello che si cela dietro un velo di apparente ecologismo è il funerale di un pezzo di trasporto pubblico italiano: nessuna scelta di riconversione è stata fatta su uno studio di analisi della domanda per quella linea. Non si tratta di prendere la frequentazione di un cattivo servizio di autobus e dire poche centinaia di utenti al giorno non valgono nemmeno una coppia di treni. Ma di sedersi a tavolino e costruire – utilizzando le potenzialità offerte dalla miniera di grandi dati che gli spostamenti pendolari lasciano ogni giorno – le matrici aggiornate di origine e destinazione afferenti al bacino di un ramo secco. Ovvero chiederci non tanto se ha senso spostare i pochi passeggeri di malandate corriere sul mezzo ferroviario ma come sia possibile spostare la quota di persone che usano il mezzo pubblico da quel terribile 5% al quale è inchiodato da dieci anni fuori dalle grandi aree metropolitane.
Non possiamo parlare di Accordi di Parigi, rilancio dell’economia locale, salvaguardia della salute, riduzione degli incidenti nel Paese che conta più sinistri e morti per inquinamento se non usiamo in maniera efficace quanto abbiamo. Specie se è una tecnologia efficiente come la ferrovia.

Perché non è affatto efficace fare una ciclovia tra Fano e Urbino quando ogni giorno sono 10.772 gli spostamenti tra le due città. Che diventano 34.000 spostamenti se si considerano gli spostamenti che si svolgono lungo l’area urbana fanense che ormai si allunga senza soluzione di continuità nella Val Metauro e considerando anche le relazioni con la città di Pesaro.

E non è stato affatto efficace dismettere una ferrovia come la Spoleto-Norcia: ce ne siamo accorti quest’inverno quando i 10.000 abitanti della Valerina sono rimasti isolati dal dalle nevicate seguenti gli eventi sismici. Perché come insegnano le ferrovie elvetiche una ferrovia può essere esiziale nel mantenere l’accessibilità alle comunità montane.

Come non è efficace nemmeno la trasformazione in ciclovia del sedime della ex tramvia Palermo-Monreale peraltro ancora ampiamente disponibile, quando lungo l’asse Monreale-corso Calatafimi ogni giorno si svolgono poco meno di 90.000 spostamenti, quasi tutti in auto.

Le politiche attuate dallo Stato nel secondo dopoguerra hanno imposto un ridimensionamento alla rete delle “concesse” sopravvissuto al conflitto. Un primo provvedimento formalmente emanato a sostegno dell’industria privata, la citata legge n.1221 del 2 agosto 1952 (“Provvedimenti per l’esercizio ed il potenziamento di ferrovie e di altre linee di trasporto in regime di concessione”) consentì ad esempio di fruire di contributi pubblici per il rinnovo dei parchi veicoli, sostituendo l’ormai antiquata trazione a vapore con automotrici Diesel, imponendo però nel contempo la chiusura di tratte che dal punto dei traffici registrati rappresentavano tratti non secondari, come nel caso della Modena-Cento-Ferrara della Società Veneta, della Modena-Finale Emilia della SEFTA o della Reggio Emilia-Carpi del CCFR.
Una successiva ondata di soppressioni si ebbe negli anni sessanta, con la chiusura imposta dall’allora Ministero dei Trasporti di linee dotate di infrastrutture moderne, elettrificate e caratterizzate da traffici significativi come la Pisa-Tirrenia-Livorno, la Voghera-Varzi o la celeberrima Ferrovia delle Dolomiti.
L’ultimo provvedimento significativo destinato alle ferrovie in concessione prima della riforma che portò all’attuale assetto normativo fu la legge 910/1986 finalizzata specificamente “all’ammodernamento delle ferrovie concesse”. Ma la seconda ondata di dismissioni era alle porte.
Sulla rete principale dai primi anni Novanta, il doveroso processo di modernizzazione e automazione della rete si tramutò presto in una soppressione generalizzata di tutti i binari di incrocio e di precedenza non strettamente indispensabili, prima sulle linee secondarie e poi, purtroppo, anche sulle principali. Come notò, a suo tempo, efficacemente Giorgio Stagni, si coniò persino un nome per definire queste linee impoverite e ridotte ai minimi termini: “rete snella”, un amaro eufemismo, secondo il quale una ferrovia senza stazioni, senza scambi, senza “binari di troppo” si gestisce più agevolmente – appunto in modo più snello – di una tradizionale, con tutti i suoi binari al loro posto (in realtà è vero proprio l’opposto: la rete snella è una ferrovia ingessata, incapace di assorbire le perturbazioni, che offre una capacità inferiore e non aumentabile e va in crisi di fronte alle punte di traffico).
Ma lo snellimento, alla faccia delle scelte di tutt’altra tendenza di Deutsche Bahn oppure delle ferrovie giapponesi, non riguardava solo gli impianti ma anche le linee secondarie, i rami secchi. Linee con servizi ridotti all’osso che certo non posso essere attraenti per l’utenza: ancora una volta si cerca a posteriori l’inevitabilità di scelte già preconfezionate. A nessuno importa studiare i territori, tantomeno cercare la domanda di mobilità latente.
Pedalate, allora, per decine di km per monti e valli. Le merci, se volete, mettetele nel portapacchi ché gli scali ferroviari in Italia, mentre la Cina costruisce su ferrovia la nuova via della seta, sono stati tutti alienati con poche eccezioni. Perché, ad esempio, nessuno riflette se gli scali milanesi possano diventare dei grandi hub per lo smistamento delle merci su mezzi elettrici e cargo-tram. Meglio pensare a costruire nuovi grattacieli, magari con qualche parco. E sempre al verdismo, alla mano di vernice verde per coprire le storture di un Paese che non pensa più nemmeno al presente. Figuriamoci al futuro.

La bicicletta è un mezzo fondamentale di trasporto, sia nelle aree urbane che in quelle rurali: ma non permettiamo che la drastica riduzione della rete ferroviaria italiana sia presentata come un’opera ecologista. Perché i treni portano anche le bici, come dimostra il successo della ferrovia della Val Venosta. Ma quello che non portano i treni, lo porta il trasporto su strada.

http://www.corriere.it/sport/running-nuoto-bici/cards/pedalando-vecchie-ferrovie-quei-percorsi-unici-nord-sud/business-cicloturismo_principale.shtml